Toyconomy
(tra economia, bolle e nostalgia)
Se guardiamo ai giocattoli come a un laboratorio tascabile di micro e macroeconomia, troviamo quasi tutto: catene di fornitura rigide nel breve periodo, shock di domanda scatenati da TV e social, speculazione, mercati secondari, furti e persino “asset alternativi”. Con, sottotraccia, una corrente che scorre potente come la Forza: la nostalgia che fa aprire i portafogli agli adulti di oggi.
1) L’economia del giocattolo: il caso Tickle Me Elmo (manuale di micro + moneta facile)
Che cosa succede quando l’offerta è fissa e la domanda esplode? Nel caso di Tickle Me Elmo (fine anni ’90), i rivenditori avevano ordinato quantità prudenti mesi prima, la produzione in Asia era già avviata, le spedizioni definite e la merce sugli scaffali per Natale: nel breve, l’offerta è rigida. Poi, la vetrina di una popolare conduttrice TV trasforma Elmo da peluche “simpatico” a “regalo must-have”, e la domanda…
si impenna! (e uno)
Con offerta bloccata, i prezzi salgono finché il mercato non “si svuota”. È il classico clearing, ma con un extra: entra in scena la domanda speculativa, guidata da paura di restare senza e voglia di rivendere.
C’è una similitudine tra le grandi “corse” ai giocattoli (Cabbage Patch Kids a metà anni ’80, poi Elmo a metà/fine anni ’90) e le cicliche fasi di politica monetaria accomodante: quando i tassi sono bassi e c’è liquidità, l’euforia filtra anche nei mercati più impensati. Così, Elmo diventa quasi indicatore anticipatore di un Natale forte e di un’economia più vivace del previsto: se c’è “benzina” monetaria, è più facile che anche i peluche diventino asset momentaneamente “caldi”.
Quali furono le tre leve del boom?
Offerta corta (lead time di produzione + logistica → supply fissa nel breve).
Shock di domanda (amplificazione mediatica).
Speculazione retail (scalper, ricarichi a più zeri)
Morale: spesso il prezzo di picco riflette meno l’“utilità d’uso” e più l’utilità psicologica di far parte dell’evento (con FOMO annessa)—e la disponibilità di moneta che alimenta quel momento.
2) Pokémon: perché le carte sono esplose di prezzo (e cosa ci dice l’economia)
Se avete un figlio appassionato o siete voi stessi cresciuti a pane e Charizard, l’ondata di notizie dall’inizio del 2020 avrà colpito anche voi: aste folli, code ai negozi, pacchetti introvabili e un mercato dell’usato che raddoppia nel giro di settimane. La domanda di fondo è semplice: che cosa muove davvero i prezzi delle carte Pokémon? L’economia risponde senza giri di parole e siamo sempre ai fondamentali di prima: domanda e offerta. L’offerta è, di fatto, nelle mani di The Pokémon Company (che stampa sempre di più); la dinamica interessante è tutta dal lato della domanda, che negli ultimi anni ha ricevuto tre spinte decisive: più reddito disponibile, preferenza per pezzi “mint” certificati, aspettative di ulteriori rialzi alimentate da casi mediatici.
Reddito e consumo “di conforto”.
Nel 2020, con i primi mesi della pandemia, i dati sui prezzi delle carte “storiche” mostrarono negli USA un picco molto correlato al balzo del reddito disponibile sostenuto dagli stimoli della coda dell’amministrazione Trump 1: l’iconico Charizard Base Set toccò il suo massimo a marzo 2020, in perfetta sincronia con l’impennata dei sussidi pubblici che drogavano i consumi “domestici” e nostalgici. In termini di teoria, le carte si comportano da bene normale (anzi, per molti un piccolo lusso): quando il reddito sale, sale la quantità domandata. E in lockdown, con il tempo a disposizione e il bisogno di “ricompense” emotive, l’effetto si amplificò.
Non si è trattato solo di “vintage”: serie recenti come Hidden Fates (fine 2019) o XY Evolutions (2016, la ristampa celebrativa del Base Set) sono andate a ruba, fino a costringere alcuni rivenditori a sospendere le vendite per arginare la caccia selvaggia ai pacchetti. È il classico segnale di domanda eccedente: quando sugli scaffali c’è meno prodotto di quanta gente voglia comprarlo, il mercato secondario esplode.
La dittatura del “mint”: grading, scarsità e prezzi.
Nel collezionismo la condizione dell’oggetto è tutto. Le carte “mint” certificate sono la vera moneta pregiata del settore. La corsa al grading durante il boom ha avuto due effetti: da un lato ha selezionato l’offerta, mettendo un sigillo di qualità (le carte rare sono scarse per definizione); dall’altro ha alzato i costi e i tempi (PSA & co. che certificano la qualità hanno aumentato le loro tariffe e accumulato arretrati), restringendo ancora di più il flusso di pezzi “perfetti” disponibili. Se la scarsità di carte mint aumenta mentre la voglia di possederle cresce, i prezzi…
si impennano! (e due).
È anche il motivo per cui le carte “giocate”, piegate, lavate o tenute nel portafogli non seguono gli stessi rialzi: appartengono a un mercato diverso.
Le aspettative (e la benzina dei media)
Nulla accende la miccia della domanda come la prospettiva di guadagni futuri. Il caso più celebre è stato quello di Logan Paul: l’acquisto di un Base Set Booster Box per 3,5 milioni di dollari e l’epilogo virale (la scatola era falsa, piena di carte di G.I. Joe). Paradossalmente, anche uno scandalo così amplifica l’attenzione: milioni di visualizzazioni, nuovi occhi sul mercato e un messaggio “speculativo” fortissimo (se questi numeri sono REALI, allora vale la pena entrare adesso nel mercato). In termini economici, aspettative di prezzi futuri più alti spostano la curva di domanda verso destra oggi, facendo salire i prezzi oggi.
Per riassumere il quadro, in breve:
Le carte Pokémon si comportano da bene normale: più reddito → più domanda.
La qualità certificata (mint, PSA/Beckett) crea scarsità e quindi prezzi più elevati.
Le aspettative – soprattutto se incendiate da casi mediatici – spingono la domanda nel presente
Quando le vendite retail si inceppano (scaffali vuoti, stop dei negozi), il mercato secondario diventa la valvola di sfogo, e i prezzi riflettono l’euforia più che l’uso.
Alla fine, l’economia del fenomeno è meno misteriosa di quanto sembri: è la combinazione di portafogli pieni, nostalgia, certificazioni che trasformano la qualità in scarsità, e storytelling che suggerisce che “domani varrà di più”. Il resto lo fanno piattaforme e algoritmi: con pochi clic si confrontano prezzi, si segue l’asta, si condivide il “colpaccio”. E quando la domanda corre più veloce della stampa, i Charizard tornano a bruciare.
3) Labubu economy: come una creatura imbronciata muove desideri, file d’attesa e capitali
A Shanghai, persino nel megastore Pop Mart, ti dicono: “Torna tra una settimana”. Non per una borsa, non per uno smartphone: per una specie di elfo imbronciato con due dentini... I Labubu arrivano in blind box da circa 20 dollari, ma una versione rara è volata all’asta a 150.000 dollari il 10 giugno. E non sono soli i bambini cinesi a inseguirli: da David Beckham a Rihanna, le celebrity hanno già fatto outing da collezionisti.
Il risultato? Un’onda lunga in Borsa: dall’inizio dell’anno le azioni di Pop Mart sono schizzate del 180%. Ma sarebbe riduttivo archiviarla come “bolla dei pupazzetti”, in questo caso. Labubu è l’icona di un trend più profondo: l’ascesa dei brand cinesi di consumo, capaci di conquistare casa e mondo mentre lo shopping interno rallenta. Il segreto sta in un mix di prezzo accessibile, qualità percepita e (soprattutto e ancora una volta) prodotto “emotivo”, pensato per attivare appartenenza e collezionismo.
La meccanica è perfetta per l’economia dell’attenzione: ingresso a basso costo, suspense su quale modello troverai, quantità limitate, edizioni speciali che alimentano il mercato secondario. È la dinamica “lotteria”: paghi poco per la possibilità di trovare l’oro; chi vince monetizza, chi perde… riprova. Il tutto condito da code fisiche negli store e da feed social pieni di unboxing, che trasformano l’acquisto in evento.
Va detto che nell’economia cinese degli ultimi mesi i consumatori sono più attenti al prezzo. Da qui il terreno fertile per marchi locali “buoni e giusti” che battono i colossi stranieri sul rapporto qualità/prezzo. Pop Mart intercetta proprio i cosiddetti frugali con oggetti curati ma accessibili. Però la storia non finisce qui: molte marche locali vincono anche nella fascia premium. Per esempio, consideriamo il caso di Chagee, catena di tè: i suoi latte più venduti stanno a 15-20 yuan, in linea con Starbucks, ma con un posizionamento dichiaratamente “alto”.
Il gusto non è neutro. Brand come Laopu Gold (gioielli) o lo stesso Chagee non cercano di sembrare occidentali: esibiscono un’estetica e una narrativa profondamente cinesi. Funziona: Laopu mantiene vendite per negozio sopra i 300 milioni di yuan, ha battuto molti concorrenti stranieri e ha corso fortissimo in Borsa dall’IPO in poi. Nella cosmetica, Mao Geping è il primo marchio locale a entrare nella top ten dell’alta gamma in Cina, con un’IPO da 300 milioni di dollari e un rally azionario a tre cifre. La lezione per Labubu? L’estetica “nativa” crea senso di riconoscimento e comunit. E la community è l’asset che monetizzi di più nell’economia digitale.
Molti campioni locali non sono nati a Pechino o Shanghai: hanno scalato dalle città di terza e quarta fascia, dove la domanda tiene meglio. Nel 2024 gli acquisti di beni di largo consumo sono cresciuti del 5,5% nei centri sotto 1 milione di abitanti, mentre sono scesi del 4,6% nelle metropoli. Anche l’hôtellerie locale (H World) mantiene occupazioni sopra l’80%, meglio di competitor internazionali in Cina. Tradotto: se vuoi costruire un fenomeno nazionale (e poi globale), parti dove l’onda di spesa è più stabile e meno presidiata.
Ma Il fenomeno Labubu non resta confinato tra le muraglie domestiche. Pop Mart oggi ha negozi in oltre 20 Paesi, con almeno 37 punti vendita negli Stati Uniti. E l’eco social occidentale (unboxing, haul, collezioni) nutre la desiderabilità anche in patria: più il “mondo” ne parla, più i fan cinesi sentono di appartenere a qualcosa di grande. Altri brand si espandono con la stessa aggressività: Chagee punta a 1.300 negozi fuori dalla Cina entro fine 2027, partendo quasi da zero quattro anni fa.
In un contesto simile, non sorprende che i marchi stranieri corrano ai ripari. C’è chi testa prodotti “folkloristici” (vedi i caffè speciali di Lavazza, con fortuna limitata), e chi valuta partner locali per rivitalizzare l’operatività in Cina (da Häagen-Dazs a Starbucks). Il messaggio è chiaro: lo status di “brand globale” non basta più; serve local relevance autentica.
4) L’economia dei set LEGO: quando la scarsità trasforma i mattoncini in asset
Sembrano soltanto mattoncini di plastica. Eppure alcuni set LEGO, oggi, valgono migliaia di dollari sul mercato secondario. Un minifigure di Spider-Man distribuito al Comic-Con 2013 ha toccato valutazioni da capogiro — oltre 16.000 dollari — e non è un’eccezione isolata.
Dietro questi prezzi c’è una dinamica economica molto chiara, che ormai conosciamo alla perfezione: scarsità programmata + domanda da collezione. In media, un set rimane sugli scaffali per circa due anni; poi va “in pensione” e non viene più prodotto. L’offerta, quindi, si chiude mentre la domanda continua, spesso alimentata da chi vuole completare collezioni o ricostruire pezzi d’infanzia. Risultato: anche i set non “limited edition” tendono a rivalutarsi nel tempo.
Questa combinazione crea un mercato con tratti da bene da collezione: domanda relativamente inelastica, forte valore d’identità (il “completionism” dei fan) e bassi costi di transazione grazie alle piattaforme online. È un manuale vivente di microeconomia: quando l’offerta diventa rigida e la comunità attribuisce valore simbolico all’oggetto, i prezzi…
si impennano! (e tre).
Naturalmente, dove circolano ampi margini di profitto, emergono subito anche i comportamenti opportunistici. Negli Stati Uniti si è sviluppato un vero e proprio mercato nero dei LEGO, alimentato da furti mirati ai negozi specializzati. In California, per esempio, più punti vendita Bricks & Minifigs sono stati colpiti; in un caso i ladri hanno portato via merce per almeno 100.000 dollari. In un altro episodio, lo sceriffo della contea di Alameda ha recuperato quasi 200 set rubati; alcuni articoli trafugati comparivano su eBay poche ore dopo il colpo. Un negozio di giocattoli della Bay Area ha denunciato in un singolo episodio circa 7.000 dollari di LEGO sottratti, spesso con tecniche di distrazione “a due complici”.
Perché proprio i LEGO? Perché si vendono in fretta e hanno acquirenti motivati. Un criminologo che studia la prevenzione delle perdite nella grande distribuzione ha osservato che i collezionisti di beni molto “desiderabili” talvolta non si fanno troppi scrupoli sull’origine della merce. È insomma l’economia (e l’etica) dell’arte applicata ai giocattoli: alta desiderabilità, bassa tracciabilità, rapida rivendita.
Sul fronte “pulito” del mercato, intanto, è nata una piccola industria dell’investimento nei set. Uno youtuber e rivenditore specializzato sostiene di avere fatturato 500.000 dollari nel 2023 rivendendo LEGO; l’anno successivo ha volontariamente ridotto l’attività — complice la nascita di una figlia — a 250.000 dollari.
La sua tesi? Non sono pochi set a salire: “sale quasi tutto il mercato”, proprio perché l’uscita di produzione rende i pezzi progressivamente più rari.
Gli indicatori dal lato prezzi per ora confermano: secondo i tracker dei trend (come BrickEconomy), alcuni set raggiungono quotazioni da collezione — un Piper airplane vicino a 13.000 dollari, un T-Rex a quasi 9.000, un castello intorno a 8.500. Anche singoli minifigure possono raddoppiare il valore rispetto al prezzo retail nel giro di poco. Qui la logica è da asset scarsi più che da giocattoli: la nicchia è piccola, ma la disponibilità è molto limitata.
In conclusione, i LEGO sono un caso di studio perfetto: un bene nato per il gioco che, grazie a una gestione dell’offerta e a comunità appassionate, si comporta come un asset da collezione. È un mercato piccolo, certo; ma dentro ci sono tutte le leve dell’economia reale (scarsità, incentivi, piattaforme, esternalità), compresa l’ombra del mercato nero quando il valore sale troppo. Se cercavate un esempio concreto di come le regole dell’economia trasformino gli oggetti in storie, bastano un paio di minifigure (e qualche migliaio di dollari).
Conclusione: la lunga coda della nostalgia (e perché la Gen X compra ancora giocattoli)
Elmo, Pokémon, Labubu, Lego sono uno spartito facile da leggere: quattro variazioni sul tema scarsità + racconto + piattaforme + liquidità.
Ma l’ingrediente che rende tutto resiliente (è la prima volta che uso l’aggettivo senza un reflusso gastrico, permettetemi di celebrare) è la nostalgia: molti adulti di oggi (Gen X e non solo) comprano i simboli della propria infanzia/adolescenza…
Per sé, oltre che per i figli. Non a caso, molti investitori entrano nel mondo Lego cercando i set della propria infanzia, per pura nostalgia… e da lì scoprono un mercato in forte espansione e dalle interessanti prospettive per il futuro!
LEGGERE BENE LE AVVERTENZE: DIETRO QUESTO FINTO ED ESAUSTIVO APPROFONDIMENTO SI CELA IL MIO TENTATIVO PIETOSO DI GIUSTIFICARE A ME STESSO E A MIA MOGLIE IL PROSSIMO ACQUISTO DEL NUOVO SET LEGO DELLA MORTE NERA.
Il paper della settimana
Dobrynskaya, Victoria, and Julia Kishilova. "LEGO: The toy of smart investors." Research in International Business and Finance 59 (2022): 101539.
Spoiler: i LEGO non sono solo mattoncini, sono un asset alternativo con numeri seri. Analizzando 2.322 set dal 1987 al 2015, le autrici costruiscono indici di prezzo (chain + hedonic) e trovano un rendimento medio annuo intorno all’11% (circa 8% reale), superiore a bond, oro e molte “passion investments”.
Non è solo fortuna: i rendimenti hanno bassa esposizione ai soliti fattori di rischio azionari, con quasi unità solo al fattore “size” (SMB) e un’alpha multifattoriale positiva 4–5%. Tradotto: si muovono un po’ come le small cap, ma con un profilo diverso e utile per diversificare.
Quali set rendono di più? In media, spiccano i piccolissimi e i giganteschi; e tra i temi brillano Ideas, Seasonal e tutto ciò che cavalca film e franchise (Super Heroes, Batman, Harry Potter). L’ingrediente chiave è la rarità.
Tempistica: nel primo anno i prezzi del secondario spesso stanno sotto il retail; poi, quando il set va “retired”, scatta il salto 2–3 anni dopo l’uscita. Morale: orizzonte minimo ≈ 3 anni.
Attenzione ai costi: su eBay le fee erodono il guadagno (circa 9,15% sul venduto), e il rendimento medio per set scende da ~18,5% a ~14,7% annui, prima di storage e abbonamenti.
In più, la distribuzione dei rendimenti è “sbilenca” verso l’alto e il mercato ha retto bene ad alcune crisi: un’altra freccia per la diversificazione del portafoglio.
In sintesi: LEGO può essere “il giocattolo degli investitori smart”, ma funziona da maratoneta, non da sprinter, e premia chi conosce il mercato e sa scegliere set rari.
Il grafico della settimana
fonte: Grand View Research Consulting
La citazione della settimana
“To most rich people, money is power." I opened the door and got out of the truck. "That's what's cool about Emma," Pete said. "She's totally into money, but she isn't like that at all. Money isn't power to her."
"What is it?"
He thought about it for a second, then grinned. "Lego," he said.”
― Jordan Weisman, Il segreto di Cathy
Il video della settimana








Brillante analisi, Luciano! La connessione tra politica monetaria e fenomeni come Tickle Me Elmo è particolarmente illuminante - non avevo mai considerato i giocattoli come indicatori anticipatori di cicli economici.
Il caso Labubu mi colpisce per come rappresenti perfettamente la "soft power" economica cinese: non solo prodotti competitivi sui prezzi, ma brand che creano identità culturale autentica. È un cambio di paradigma rispetto ai decenni passati.
Una domanda che mi sorge: quanto pensate che la "gamification" degli investimenti (pensate alle app di trading che sembrano videogiochi) stia influenzando questa mentalità "asset-giocattolo"? La linea tra collezionismo, nostalgia e speculazione si sta assottigliando sempre di più, specialmente tra le nuove generazioni cresciute con le dinamiche delle lootbox e dei NFT.