Quanto vale un’opera d’arte?
Nel 1962 Totò cercava di vendere la Fontana di Trevi per 10 milioni di lire. Una gag memorabile, certo. Ma se oggi volessimo davvero rispondere a quella domanda – “è un buon prezzo?” – da dove dovremmo cominciare? Qual è il valore economico della bellezza, e come si misura il prezzo di un capolavoro?
Siamo abituati a pensare al nostro patrimonio artistico come a un’eredità inestimabile, e forse è proprio questo il problema. Non possiamo stimare, non possiamo monetizzare, e quindi non possiamo davvero valorizzare. È la malinconia della Grande Bellezza: la sensazione che tutto ciò che abbiamo non generi più alcun ritorno.
Eppure l’economia qualche idea ce l’ha. Un approccio curioso, ma fondato su un principio molto semplice – quello dei prezzi relativi – prova a rispondere alla domanda in modo creativo. Funziona così: si prendono i prezzi di vendita più recenti e accreditati per opere di grandi artisti (per esempio, un quadro di Cézanne), e si confrontano con il valore di disegni o bozzetti degli stessi autori. Quel rapporto – quanto vale il quadro rispetto al disegno – si applica poi a un disegno di Michelangelo venduto all’asta (nel caso specifico: 3,5 milioni per uno schizzo venduto da Sotheby’s nel 2004). Da lì, si risale a una stima per un’opera “finita” del Buonarroti.
Il risultato? Il David potrebbe valere tra i 2,1 miliardi di euro (usando un moltiplicatore prudente come quello derivato da Guercino) e i 35 miliardi (con il moltiplicatore da Warhol). Anche senza volerlo davvero vendere – tranquilli, non è in programma – è interessante notare che quei numeri sono ben più alti del giro d’affari turistico annuo che l’opera genera. Con una stima conservativa, si potrebbe finanziare un terzo di una riforma fiscale. Provocazione? Sicuro. Ma serve a illuminare un paradosso: possediamo tesori dal valore potenziale gigantesco, ma che, nei fatti, incidono poco nei bilanci pubblici.
Ma se questo è il modo per stimare oggi il valore di un’opera del passato, possiamo chiederci anche: quanto valevano al tempo della loro creazione? Esisteva un mercato? Era tutto prestigio, o contavano anche le “banali” leggi dell’offerta e della domanda?
La risposta arriva da un articolo dell’economista Federico Etro, che ha raccolto e analizzato i dati di oltre 300 commissioni artistiche tra il 1250 e il 1550: contratti, pagamenti, dimensioni dei quadri, numero di figure rappresentate, età del pittore, committenti e provenienza geografica. Una miniera di dati per una domanda precisa: cosa determinava il prezzo di un’opera d’arte nel Rinascimento?
Le evidenze non hanno nulla di romantico: più grande il quadro, più figure presenti, più alto il prezzo. Anche l’età contava: i pittori tra i 30 e i 48 anni ricevevano le commissioni più redditizie. All’inizio della carriera, l’artista innovava per farsi conoscere; a fine carriera, capitalizzava la reputazione. Un ciclo che ricorda molto da vicino quello di altri settori creativi (e persino startup contemporanee).
Anche le innovazioni tecniche – come la pittura a olio o la prospettiva – coincidevano con fasi di espansione del mercato: più soldi giravano, più gli artisti avevano incentivo a innovare. Etro parla di un mercato in concorrenza monopolistica: artisti che producono beni simili, ma ognuno con il suo stile unico. Esattamente come oggi un brand di moda o un musicista.
E in questa dinamica, sorprendentemente, i più grandi non godevano di vantaggi eccessivi. Michelangelo sì, guadagnava bene. Ma anche pittori oggi poco noti, come Neri di Bicci, riuscivano a ottenere compensi rispettabili. Certo, c’era qualche “distorsione”: Giorgio Vasari, primo grande critico dell’arte, sembra avere un debole evidente per i fiorentini.
Alla fine, una classifica economica degli artisti del tempo vede ai vertici Michelangelo, Raffaello e Tiziano. E anche qui i dati parlano: le opere più pagate sono spesso quelle con più soggetti umani – segno di un maggiore coinvolgimento del maestro rispetto agli apprendisti.
Insomma, se oggi fatichiamo a capire come valorizzare il nostro patrimonio artistico, sappiamo almeno che, nel passato, qualcuno ci riusciva benissimo. Il mercato c’era, le regole anche. E pure un certo spirito imprenditoriale: fattura, fattura, fattura, avrebbe detto lo startupper del tempo… o magari, più semplicemente, il maestro di bottega.
Bibliografia
Etro, Federico. "The economics of Renaissance art." The Journal of Economic History 78.2 (2018): 500-538.
Etro, Federico, and Laura Pagani. "The market for paintings in the Venetian Republic from Renaissance to Rococo." Journal of Cultural Economics 37 (2013): 391-415.
E nel mondo classico greco-romano?
Il paper "Art and Markets in the Greco-Roman World" di Federico Etro analizza l’evoluzione dei mercati artistici nell’antichità, con un focus sulle dinamiche economiche che hanno favorito l’innovazione nell’arte greca classica e la produzione di massa nell’Impero romano. Secondo Etro, nella Grecia del V-III secolo a.C., la competizione tra città-stato per ottenere opere d’arte di qualità ha incentivato innovazioni estetiche e tecniche (come la mimesis), facendo salire i prezzi dei capolavori, come testimoniato da fonti letterarie (es. Plinio il Vecchio). Al contrario, nel I-III secolo d.C., l’Impero romano era un mercato vasto e integrato, che favoriva processi produttivi standardizzati, cost-saving e orientati alla replica, come dimostrato dall’analisi di oltre 200 iscrizioni epigrafiche su commissioni di statue. Queste mostrano che i prezzi erano stabili e uniformi tra le province, segno di forte integrazione commerciale. Il lavoro si collega anche ad altri studi storici su mercati dell’arte in epoche successive (es. Rinascimento e Olanda del XVII secolo), proponendo un legame tra struttura del mercato e innovazione artistica. L'autore sostiene che fin dall’antichità l’organizzazione economica dei mercati dell’arte ha influito significativamente sulla creatività e sui prezzi delle opere.
Etro, Federico. "Art and Markets in the Greco-Roman World." The Journal of Economic History 84.2 (2024): 432-478.
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